Il Fiorino d’oro, una moneta viva
Il Fiorino d’oro raccontato da Paolo Penko
Fiorino, il primo ricordo
Quando mi è stato chiesto di raccontare ciò che ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi questa piccola moneta d’oro “fulgente come un piccolo sole” e che “sgorgò come una fonte d’oro” e si diffuse in tutta Europa, mi è subito tornato alla mente mio padre.
Avevo sei anni e vivevo una giornata particolare, anzi una serata davvero speciale per me perché la mattina seguente sarebbe stato il mio primo giorno di scuola in prima elementare. Ancor di più quella serata fu resa indimenticabile dal regalo che mi fece il mio babbo: la preziosa moneta battuta nella Zecca dell’Arte di Calimala nel 1252. Rimasi ad occhi spalancati ad osservare, con la lente d’ingrandimento, quella piccola moneta d’oro, fantasticando su cosa mai avevano potuto comprare con quel soldo e da quante mani fosse passato, testimone di chissà quali avvenimenti.
Mio padre, grande conoscitore ed appassionato della storia della nostra città, mi raccontò della famosa Arte di Calimala, del Signore della Zecca per l’oro, della devozione dei fiorentini nei confronti di San Giovanni, dei grandi banchieri Bardi e Peruzzi, di Mastro Adamo, del Castello dei Conti Guidi e le tante storie ed aneddoti che accompagnano questa moneta così importante per la nostra Firenze. Fu proprio in quel momento che, per la prima volta, nacque in me la consapevolezza e l’orgoglio d’essere fiorentino.
Tra le tante storie quella che mi colpì di più fu quella tratta da “La Splendida Storia di Firenze” di Piero Bargellini che desidero riportare integralmente:
“Pera Balducci, mercante fiorentino «discreto e savio», di ritorno da Tunisi, raccontò a Giovanni Villani un curioso episodio, di cui era stato protagonista. Si trovava in Barberia, quando vi giunsero i primi fiorini d’oro. Le coste africane si potevano dire appannaggio dei pisani, che, nel campo mercantile, vi facevano il buono e il cattivo tempo. Gli stessi fiorentini, per avere più credito, si spacciavano per pisani, e pisani erano, per gli arabi, tutti i mercanti italiani. Fu così che, nel vedere la nuova bellissima moneta d’oro, il Re di Tunisi la fece saggiare, e «trovata di fine oro, molto la commendò». Ne fece leggere la scritta agli interpreti, i quali, vedendo il nome di San Giovanni Battista, capirono trattarsi d’una moneta di cristiani. L’altro nome che vi si leggeva era quello di Fiorenza, e questo non suggeriva nulla né alla mente degli interpreti né a quella del Re. Firenze era dunque città sconosciuta al di là del mare. Conosciutissima era invece la città di Pisa e il Re si rivolse ai pisani per sapere «che città era tra’ cristiani quella Fiorenza che faceva i detti fiorini». «Rispuosono i pisani, dispettosamente per invidia, dicendo: – sono nostri arabi fra terra; che tanto viene a dire come nostri montanari. Rispose saviamente il Re: – Non mi pare moneta d’arabi (cioè di poveri montanari); o voi, pisani, quale moneta d’oro è la vostra?». I pisani, confusi, non seppero rispondere e il Re chiese se a Tunisi si trovasse qualche mercante di Fiorenza: Ed ecco presentarsi a lui Pera Balducci, al quale il Re domandò notizie della sua città. «Lo quale saviamente rispose, mostrando la potenza e la magnificenza di Firenze, e come Pisa, a comparazione, non era di podere né di gente la metà di Firenze. E lo Re, per cagione del !orino e per le parole del nostro savio cittadino, fece franchi i fiorentini, e che avessero per loro fondaco d’abitazione e chiesa in Tunisi, e privilegiolli come i pisani». Incredibile potenza dell’oro, in tutti i tempi e in tutti i luoghi!”
Come quella moneta mi aiutò ad aprire bottega
Da quel momento in poi il fiorino ha sempre accompagnato le occasioni importanti della mia vita come un “portafortuna”. Per i miei diciotto anni il mio nonno paterno, numismatico e filatelico, mi regalò alcune monete antiche, tra le quali appunto qualche fiorino. Decisi di venderle all’asta ed il ricavato mi fu di aiuto per aprire la mia bottega e per comprare il primo oro puro con il quale avrei realizzato i miei primi gioielli.
Secondo la tradizione fiorentina, si dona un fiorino, come simbolo di buon auspicio, per l’occasione di un battesimo. Così, anche per me, il fiorino tenne a battesimo l’inizio della mia attività nel campo dell’artigianato artistico prezioso. Alcuni anni dopo sono riuscito a rientrare in possesso di due di quei famosi fiorini che oggi custodisco gelosamente.
Non ho mai smesso di studiare questa moneta fiorentina tanto da volerla riprodurre personalmente nella mia bottega, come avveniva all’interno della Zecca, realizzando i cosiddetti “ferri”, sui quali con piccoli ceselli e bulini ho raffigurato il fronte e il retro del Fiorino, per realizzare i due conii. Il Fiorino è una moneta con un fascino particolare. Per noi fiorentini simboleggia un augurio di buona fortuna tanto è vero che viene donato ai neonati rievocando un’antica tradizione: si mette nella mano del piccolo/a nato/a la moneta nella speranza che la stringa forte in modo da essergli di buon auspicio per il futuro.
Tante sono comunque le occasioni in cui si usa regalare un Fiorino, come per riconoscimento, stima, ricordo o simbolo eterno della nostra città.
Tutti a “batter moneta”
All’interno della mia bottega, ormai da qualche anno, organizzo delle dimostrazioni durante le quali, oltre a raccontare storie e aneddoti legati alla piccola moneta fiorentina, faccio vivere ai miei ospiti l’emozione di “batter moneta”, mostrando tutte le fasi di lavoro che venivano svolte all’interno delle due Zecche, quella dell’oro e quella dell’argento.
Il visitatore è accolto all’entrata da un ceppo di legno sul quale è fissata la “pila”, ovvero il conio inferiore in acciaio sul quale verrà poi appoggiato il “torsello”, il conio superiore, per poter battere il Fiorino. Una grande soddisfazione per grandi e piccini!
E’ una tradizione così fortemente legata alla mia professione di orafo che mi porta a renderne partecipi tutti coloro che mi vengono a trovare durante esibizioni, eventi, serate culturali o mostre di beneficenza.
Una grande emozione: una Zecca nel cortile di Palazzo Strozzi
Molti sono i luoghi dove ho potuto mostrare e raccontare l’arte dei Monetieri: scuole, piazze, palazzi storici e prestigiosi alberghi. Senza dubbio, però, l’emozione più grande è stata quella provata durante la mia collaborazione alla mostra “Denaro e Bellezza”, a Palazzo Strozzi, nel 2011.
Per l’occasione mi fu richiesto di realizzare la riproduzione di un fiorino molto particolare, quello di Salomone Strozzi, Signore della Zecca del 1414, inciso da Michelozzo di Bartolomeo, e così preparai un nuovo ceppo e due nuovi conii incisi.
Riecheggia ancora alla mia mente il rimbombo che dal chiostro si diffondeva in tutto il Palazzo Strozzi. Ogni volta che con il martello battevo sui conii sembrava di sentir tremare tutto lo storico edificio.
Fiorini e Chiavi (della Città)
Vedere l’entusiasmo nei bambini che battono il fiorino ed il loro interesse nell’ascoltare le storie della loro città a lui legate mi ha stimolato, ormai da alcuni anni, a presentare all’Assessorato all’Educazione del Comune di Firenze un progetto formativo per le “Chiavi della città”, rivolto agli studenti delle scuole secondarie di 1° grado.
Numerose sono state le classi che si sono susseguite nella mia bottega per conoscere la realtà artigianale del lavoro dell’orafo, i suoi strumenti e le tecniche ancora oggi usate per realizzare gioielli unici fatti completamente a mano secondo l’antica tradizione fiorentina. Alla fine tutti a batter moneta portandosi a casa il ricordo di una mattinata speciale che non finisce. Infatti prosegue con un lavoro fatto nelle classi dagli alunni con i propri insegnanti di Storia dell’arte, che verrà poi premiato in una bellissima manifestazione in Palazzo Vecchio. Insomma, il Fiorino d’oro è una moneta viva.
L’Arte dei Monetieri
Le mansioni, all’interno della Zecca, erano organizzate sul modello delle “Arti” anche se non costituivano delle vere e proprie Corporazioni con diritti pubblici e politici, esse erano associazioni professionali disciplinate da regole simili. Il processo produttivo dopo l’affinamento del metallo, la sua fusione e il saggio si componeva di tre fasi fondamentali: la preparazione dei “conii” e la loro incisione, la fusione dell’oro e la realizzazione dei “fedoni”, e la coniatura della moneta.
Tutto veniva svolto completamente a mano con l’ausilio di strumenti artigianali e basilari come martelli, tassi di ferro, incudini, bulini, ciappole e piccoli ceselli.Il fabbro lavorava i “ferri” per preparare i conii, che venivano poi incisi e temperati prima di essere utilizzati per la realizzazione delle monete. L’intagliatore incideva i conii con bulini, ciappole e piccoli punzoni, quest’ultimi utilizzati soprattutto per simboli o stemmi, oppure semplici elementi ornamentali e ripetitivi, essenziali come il marchio che rappresentava il Signore della Zecca.
Il conio inferiore, dove veniva inciso il “diritto”, veniva chiamato “pila” ed era bloccato direttamente nel “ceppo” di legno. Il conio cilindrico superiore, detto “torsello”, era quello dove il monetiere batteva uno o più colpi di martello.
Tra i più noti intagliatori di conii vi era Dato da Giunto, Pietro di Bartolomeo, Bernardo di Bartolomeo Cennini, Domenico di Bartolomeo Cennini e grandi artisti come Michelozzo di Bartolomeo. I “rimettitori” detti anche “remissori” erano degli ufficiali che si occupavano della fusione dell’oro oltre che, del recupero delle monete imperfette, dei loro ritagli e della polvere di limatura.
Gli “uvrieri” o “ovrieri” erano le maestranze impiegate nella realizzazione dei “fedoni”, cioè dei tondelli in metallo del diametro e del peso richiesto per ciascuna moneta.
Tra le tecniche più in uso vi era quella della gettata del metallo prezioso nel “gettaverghe” per ricavarne, con la successiva battitura a martello, la lamina necessaria. Quando il metallo era del giusto spessore si ricuoceva, bianchiva e si ritagliavano, con piccole cesoie, i “fedoni”. Con questa operazione, chiamata “overatura”, tutto il metallo non utilizzato della lamina, anche se nuovamente rifuso e rimesso nel processo produttivo, causava alti costi sia nella produzione che nel calo del metallo. Da tutto ciò si può dedurre che gli uvrieri realizzassero i “fedoni” battendo a martello una piccola sfera, chiamata “bottone”, già del peso della moneta da realizzare.
Il compito dei “Monetieri”, considerato uno tra i più prestigiosi, era quello di imprimere, a colpi di martello, il Giglio di Firenze da una parte e il San Giovanni Battista dall’altra della moneta; operazione, questa, che, vista la malleabilità dell’oro e al suo ridotto spessore, veniva effettuata sempre a freddo.
Infine vi erano i “Sentenziatori” o “Ufficiali del saggio” i quali, in possesso delle qualifiche di “boni aurifices”, erano incaricati di verificare il giusto peso, la lega, il diametro e la regolarità della moneta.
Paolo Penko
Maestro d’Arte Orafa